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Primo capitolo
Alla masseria delle Carceri niente sembrava essere cambiato, ma non avrebbe detto la stessa cosa chi l’avesse frequentata in passato ai tempi di Gigi e di Viola, i due fratelli che tra i suoi confini si erano lasciati travolgere da un amore proibito. Sembrava disabitata, per sentire una voce umana dovevi sostare un po’ nei paraggi e ascoltare attentamente gli ovattati rumori che ti arrivavano al di là del muro di cinta, tra un belato e l’altro delle pecore. Vi stazionava un’aria di abbandono, di malinconia e di mistero.
Negli anni passati, a tutte le ore del giorno potevi sentire che qualcuno suonava un flauto nei pascoli e la sera ti arrivavano anche da lontano le squillanti note della Regina della notte di Mozart. Ascoltavi le risate e gli sghignazzi dei due giovanissimi gemelli e, se al tramonto drizzavi bene le orecchie, potevi sentire anche i peti sonori a comando che facevano all’indirizzo della sorella.
La nonna Margherita era morta di demenza senile, si era spenta come una candela la settimana di Natale; Viola di tetano a sedici anni nel giro di cinque giorni, il roseto che curava con tanto amore era ormai quasi seccato; Gigi suicida a diciannove, precipitato insieme al cavallo in una cava di tufo profonda ventisei metri, nessuno aveva mai pensato a una disgrazia.
Non trovavi più nei pascoli i due giovani fratelli pecorai, che tutti chiamavano Titiro e Melibeo, come i pastori bucolici di Virgilio, che avevano lavorato in masseria per tanto tempo e si erano occupati del gregge. Avevano fatto fortuna, si erano sposati: il maggiore a Giuggianello e il minore, Tore, a Nociglia, e si prendevano cura ormai dei loro possedimenti.
I gemelli, Nano e Mimino, continuavano a essere identici nel corpo e nell’anima. Non soffrivano più le crisi epilettiche che li avevano spaventati per anni fin da bambini e che li avevano costretti a stare sempre appiccicati uno all’altro per darsi soccorso reciproco in caso di bisogno. Ma non erano riusciti a liberarsi dal senso di pericolo che le aveva sempre accompagnate e gli era rimasto incollato nel volto il tratto vespertino di quel periodo.
Nino e Rosina, i due genitori, vivevano di giorno costantemente con un nodo alla gola e le ore della notte non passavano mai. Quando avevano scoperto la relazione incestuosa di Gigi con la sorella Viola, gli avevano intimato di raccattare le sue cose e di sparire entro un mese dalla masseria: non riuscivano facilmente a liberarsi di quel pensiero fisso, anche perché c’era sempre Narciso, il figlio del peccato, a ricordarglielo.
I gemelli, che per il morbo degli Dei fino ai tredici anni non avevano avuto particolari mansioni da svolgere e gli era stato permesso di rimanere a letto fino a tardi e di andarsene poi in giro per i campi a cercare nidi o a catturare lucertole, avevano dovuto imparare alla svelta. Portavano il gregge nei pascoli all’alba e vi rimanevano assorti in silenzio fino al tramonto. Non si dividevano mai i compiti, li svolgevano sempre insieme, anche quelli che non richiedevano il contributo di entrambi: in questi casi uno lavorava, l’altro guardava, per poi alternarsi. Se ne vedevi uno, era molto difficile non trovare nei paraggi anche l’altro. E per le decisioni bastava un cenno, uno sguardo, raramente avevano bisogno di parole per intendersi.
I cani, come in una favola per bambini, avevano con loro un rapporto straordinario, li vedevano un’unica entità: se uno si allontanava, gli abbaiavano contro per farlo tornare indietro e ricongiungersi con la propria metà.
Insieme al padre mungevano poi le pecore, anche se in due a malapena riuscivano a tenergli testa.
Un tempo erano stati molto loquaci e burloni, ma ora gradivano solo la silenziosa compagnia reciproca.
Rosina mandava Narciso giù nei pascoli a portargli la merenda. Il bambino voleva passare un po’ di tempo con gli zii, ma loro, finito di mangiare, lo facevano andare via.
«Prima stavamo sempre insieme!» si lamentava.
«Prima eri piccolo» mentivano. «E noi facevamo i vagabondi, come te.»
Non avevano niente da offrirgli, pensavano, loro non erano come il fratello, il principe Orfeo che con le note del suo flauto incantava le pecore e spostava gli alberi. Loro in due, pensavano, non valevano un’unghia del suo piede.
E nel bambino rivedevano il maestro che gli aveva insegnato a leggere e a scrivere, che sotto il noce suonava soffiando a labbra strette sulle canne e raccontava antiche storie fantastiche d’amore e di dolore, e che loro avevano tradito quella notte facendolo sorprendere abbracciato alla sorella. Non ne parlavano mai, ma sentivano ancora in faccia lo schiaffo che gli diede quella notte il padre sulla veranda, come ricompensa per la spiata, quando ritornò dal capanno galeotto.
«Tata» gli avevano detto, svegliandolo a mezzanotte. «Vai al capanno. C’è una sorpresa per te.»
E Gigi non li aveva perdonati. Glielo avevano chiesto due volte, ma alla prima li aveva guardati amaramente e non aveva risposto, e alla seconda: «No» aveva sussurrato serenamente, girando loro le spalle e allontanandosi.
Mentre le pecore pascolavano, rimanevano ore sdraiati sotto il noce, in silenzio.
«Oggi» gli aveva detto un giorno, seduti tutti e tre sotto la chioma di quell’albero maestoso. «Vi racconto la storia di due gemelli» e alla fine gli avevano chiesto chi, secondo lui, di loro due era Polluce, il gemello immortale. «Voi due purtroppo siete entrambi mortali» gli aveva risposto. «Perché siete figli dello stesso padre mortale. Siete nati insieme e morirete insieme.» Gigi non era figlio di Nino, Rosina lo aveva avuto da un cantastorie suonatore di fisarmonica, durante l’unico incontro d’amore di quella notte d’estate.
«Proprio insieme?» gli avevano chiesto.
«Sì.»
La sera cenavano ancora sotto il pergolato, vicino allo spoglio roseto di Viola. Narciso si sedeva contento in mezzo a loro, zio Nano e zio Mino li chiamava, ma nessun altro parlava, solo lui.
«Dopo vi faccio sentire core ingrato» diceva.
Il nonno Nino gli aveva comprato un piccolo organetto a dieci tasti e la sera sulla veranda gli impartiva lezioni, suonando con lui la sua fisarmonica.
«Imparerò a suonare meglio di papà» disse un giorno, «e sposterò anche le case.»
Rosina guardò i gemelli.
«Doveva saperlo, prima o poi» si giustificò Nano.
«L’avrebbe saputo dagli altri, altrimenti» spiegò Mimino.
Narciso aveva quattro anni quando iniziò e a dieci suonava meglio del nonno.
La nonna Rosina sapeva da chi aveva ereditato quella dote musicale: l’antico amore di una notte, che gliene aveva promesse mille e una, il nonno paterno del nipote, era un virtuoso della tastiera, e quella sera di festa aveva catturato lei e incantato tutto il paese con le note di una fisarmonica attaccata al collo, mentre accompagnava in piazza il padre cantastorie.
Al sesto compleanno Narciso ebbe in regalo dagli zii la bicicletta. La teneva come una reliquia, percorreva solo i sentieri più sicuri e meno accidentati. Quando a ottobre cominciò a frequentare la prima elementare, la parcheggiava nel garage della casa di Elena e di Tore, che abitavano in piazza nel palazzo di don Raffaele, se lo ricordava il dottore che veniva in masseria a curare la mamma malata. Avevano due figli, Vittorio e Raffaele, entrambi più piccoli di lui, e ne aspettavano un altro. Spesso faceva colazione con loro, prima di andarsene a scuola a piedi.
Tore lo trattava come un figlio, gli parlava spesso del padre, di Gigi.
«Alla tua età scappava e veniva sempre a trovarmi giù nei pascoli. Faceva domande e imparava presto. Anche i cani venivano a salutarlo. Non ho mai conosciuto giovani come tuo padre.»
«Se nasce maschio» gli diceva Elena, «lo chiameremo Giacinto, come lui. Altrimenti Viola, come la tua mamma.»
Narciso era contrariato quando gli parlavano dei suoi genitori, sapeva che conoscevano la loro storia dolorosa. E sapeva anche perché la nonna non glieli ricordava mai e perché i gemelli non lo volevano al pascolo.
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