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1. Terra selvaggia.
Sono nata in una terra primitiva e tenebrosa, in cui per secoli nessuno volle metterci piede. Ritagliata dal mondo civile, fu consegnata a tribù bellicose, che avevano il nome di Bruzi. Nemici dei Romani e prima ancora dei Greci, considerati indegni di abitare con i popoli civili, essi passarono alla fama come i crocifissori di Gesù Cristo.
L’abitarono poi montanari diffidenti, mulattieri e massari solitari, carbonai anneriti, e fu scelta persino dal diavolo per trovarvi la mugliera.
È un mondo a sé la terra mia, immobile, legata ai cicli delle stagioni, al culto delle pietre e dell’acqua, popolata da divinità agresti. Il viandante si ritrova sperduto in un labirinto di gole serpeggianti, di sentieri che si snodano come nastri tra vallate e burroni punteggiati di felci lussureggianti. Le alture ridiscendono in vallate che si pongono sull’orlo di precipizi, perché qui, anche quando ti credi al sicuro, non lo sei mai. Torrenti cristallini attraversano questo mondo, lo costeggiano immense pinete che sprofondano direttamente nelle gole di un abisso.
Che inferno triste e amaro è la terra mia! Nutre i suoi figli tra boschi fitti e neri, dove soffia un vento che sferza i rami, nella solitudine di rocce minacciose che animano gli incubi notturni di grandi e piccirilli, perché ricordano loro i mostri preistorici e si elevano a surreali simboli in una distesa funerea.
È un paesaggio tragico, dove l’uomo è sceso a compromesso con la sua matrigna, la Natura, adattandosi alla selvaggeria del suo dominio. Nella sua infaticabile fucina essa modella e modifica paesaggio e animi irresolubilmente, fino a farli rassomigliare.
Terra inesplorata di immense distese d’alberi, inaccessibile come le sue pietre millenarie, essa ha un nome carico di fascino: Sila.
Sila: un bisillabo che racchiude il cuore essenziale e vero della Calabria, i suoi sentimenti sconfinati, schietti e puri come le acque che la irrorano.
Qui abita una razza schiva, dal cuore impietrito, che si nutre di illusioni e speranze, il cui destino segue il corso del sole e delle stelle. In questo sconfinato eremo si perde il confine tra realtà e leggenda.
Così la mia storia, tragicamente vera, è già un sogno. È diventata favola, cuntata nelle sere d’estate, ai focolari invernali, alle fiere paesane. È la vita di una donna ribelle, eversiva e irriducibile: la briganta della Sila.
La Sila mi ha pasciuto sin dalla nascita e ha rappresentato tutto il mio orizzonte. Per anni interi non ho visto che pini, querce, larici, faggi, pioppi, macchie e sterpeti, forre e ruscelli. E pensavo che così fosse tutta la terra intera.
Vi nacqui in un secolo tormentato, anche se nel mio umile casolare la Storia non faceva capolino e, se anche avesse bussato, nessuno l’avrebbe fatta entrare.
Si viveva avulsi dalla realtà nel mio paese dove la vita scorreva ripetitiva e immutabile e i venti del cambiamento non arrivavano a sconvolgerla.
Una volta, avrò avuto dieci anni, con mia cugina Rosaria feci una lunga passeggiata nel bosco, in cerca di noci e castagne.
Era una giornata piovosa, una di quelle che in questa zona montagnosa arrivano all’improvviso, e all’improvviso se ne vanno.
Lei, che condivideva con me l’età ma non i pensieri, a un tratto mi avvisò, lesta come una saetta:
– Attenta a dove metti i piedi! Il terreno è scivoloso.
– Non ti preoccupare per me. Stai attenta tu, piuttosto.
E, proprio mentre lo dicevo, Rosaria finì col sedere nell’acqua. Attaccai a ridere a crepapelle.
– Sei davvero una diavola! – sbraitò, alzandosi tutta bagnata.
Riprendemmo il cammino senza mèta, lei ancora imbronciata. A un certo punto, la presi per il gomito.
– Stai scivolando? – mi chiese con un ghigno.
– Ascolta. – le dissi, scuotendo la testa.
Ci fermammo. Il silenzio incombeva. Un suono lieve e liquido giunse chiaro alle nostre orecchie.
– Il torrente! – esclamò Rosaria.
– Sì, è proprio lui, il torrente. – sottolineai – La natura ha voci che bisogna saper cogliere.
– E così la diavola ragiona meglio di me!
– Certo! E vedrai cosa sarò capace di fare da grande.
Rosaria mi guardò strana, siglando quella diversità tra me e lei che, con gli anni, sarebbe diventata un baratro.
Io, sin da piccola, possedevo una sensibilità acuta, che mi avrebbe sempre più avvicinato a un mondo remoto e primitivo di cui subivo il fascino, catturata dal suo ritmo lento e atavico, inafferrabile ai più.
Di questo annusavo la selvatica fragranza delle erbe e bevevo dalle sue fonti che, direttamente sbucate dalla pietra ricoperta di muschi, erano il balsamo della mia anima.
La mia montagna gronda acque vive da ogni roccia, come se ne fossero le lacrime. L’acqua è una delle glorie della Sila, infatti sgorga ovunque, ora in ruscelletti fra i ciottoli ora da cascate lungo le pendici, quindi si unisce a torrenti e fiumi che sfociano nei mari Tirreno e Jonio, due fratelli che non vanno per niente d’accordo e che cingono con un forte abbraccio la loro madre: la Calabria, o meglio, come si diceva ai miei tempi, le Calabrie, perché è la duplicità la caratteristica della terra mia.
Spesso, rinfrescandomi a quelle gelide sorgive silane, ho udito l’ululato prolungato del lupo, l’aguzzo trillo della quaglia, il lugubre singulto della civetta.
Poi, sotto i miei piedi, sull’orlo di un crepaccio, ho visto roteare con la sua maestosa calma lo sparviero, che portava direttamente i messaggi dagli dei celesti agli uomini.
Parole incomprensibili che solo i puri di cuore sanno comprendere. E siccome questi sono rari come le pepite d’oro, non si saprà mai il volere divino e si commetteranno sempre peccati.
Dove ebbi la sfortuna di nascere io, ancora di più.
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