Emma. La terza sorella

15,00 

di Mariagabriella Licita

 

Tre sorelle. Una famiglia siciliana. Un matrimonio che è una prigione.

Nel cuore di Napoli, durante un lungo fine settimana di fine anno, una famiglia si riunisce forse per l’ultima volta. Gli anziani genitori e le tre figlie si ritrovano tra affetto e conflitti, tra brindisi e segreti mai detti.
Emma, la più piccola, nasconde lividi nell’anima e sul corpo, vittima di un marito insospettabile. Le sue sorelle, determinate a salvarla, cercano di offrirle una via di fuga, ma il tempo scorre inesorabile tra le vie ventose della città partenopea. Sarà sufficiente quel breve incontro per spezzare le catene della violenza?
Un romanzo intenso e spietato che scava nelle dinamiche familiari, tra legami indissolubili e ferite invisibili. La terza sorella racconta il coraggio delle donne, il peso delle scelte e la speranza di un domani diverso.
Quando tutto sembra immobile, può bastare un solo attimo per cambiare ogni cosa.

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Primo capitolo: 

Ero arrivata a Napoli il 31 dicembre col treno della sera, nell’ora in cui le famiglie si preparano al rito del cenone. Quando le donne si affrettano in cucina attorno ai fornelli, con il capitone sfrigolante e l’impepata di cozze sotto il coperchio ad aspettare l’ultima fiammata, quando gli uomini rientrano in casa e si radunano a gruppetti davanti al televisore per commentare le azioni calcistiche più belle dell’anno o escono sul balcone a fumare. Quando i bambini si rincorrono per il corridoio per strapparsi di mano l’ultimo videogioco, e tutti aspettano di sedersi attorno ai grandi tavoli apparecchiati con le tovaglie decorate di rosso e le candele accese.
Il taxi si era mosso lentamente tra le macchine in doppia fila e aveva percorso il rettilineo che dalla stazione porta a piazza Carlo III, da lì si era inerpicato per una salita sino alla bella casa di Tessa.
Dal finestrino abbassato, respiravo l’odore del selciato bagnato di pioggia che si mischiava a quello delle cucine; anche il panettone milanese sul sedile del taxi, luccicante nella carta dorata, era una promessa.
Lo avremmo tagliato insieme: i vecchi genitori e noi tre, le tre sorelle, tutti di nuovo riuniti, come un tempo; non accadeva da più di dieci anni.
Paura. Sino all’ultimo incontro era stato questo, per me, il sentimento dominante al pensiero di rivedere i genitori. Non il solo, ma certo il prevalente, assieme a un affetto accorato e a una rabbia travolgente ogni buon senso.
Mi ricordai dell’ultima volta che li avevo raggiunti in Sicilia, nel luglio scorso. Quella volta avevo preso l’aereo da Milano contratta e spaventata, certa di cosa mi stesse aspettando: un fuoco di fila serrato di domande accanite da parte di mio padre, l’ostinato attacco della sua polemica. Per tutto il viaggio mi ero ripetuta che dovevo fare il possibile per evitare l’intavolarsi di certi orribili discorsi, visto che lui, papà Domenico, invece, non aspettava altro che di poterlo fare, forte dell’autorità che gli davano il suo ruolo e la sua età avanzata.
Quella volta, durante le fasi del volo e poi anche dopo, nell’attesa del pullman a Punta Raisi, soprattutto durante le ore di corriera, avevo pianto e architettato mille strategie.
Del tutto inefficaci, lo sapevo bene, a parare i colpi, a eludere le trappole che lui avrebbe piazzato – dissimulandole dietro gli argomenti più innocenti – soprattutto durante i pasti.
Dopo il serafico segno di croce iniziale, simbolo di perdono cristiano, dopo il consueto cortese buon appetito e le prime silenziose cucchiaiate di minestra, si sarebbe avviata la conversazione. E questa, ne ero certa, da qualsiasi argomento avesse avuto origine, dopo tre semplici passaggi sarebbe finita sul solito tema: la presunta offesa che gli aveva arrecato mio marito Giancarlo quando – a suo dire – tempo fa, lo aveva cacciato dalla nostra casa.
Da lì, nonostante i miei sforzi per ricondurlo su altri binari, il dialogo sarebbe culminato con le solite parolacce, le solite domande gridate.
Così era stato tante volte in quegli ultimi anni. E per me, Agata, la figlia di mezzo, questa era stata una sofferenza cruda ed estenuante come quella di una lama slabbrata che lavora – a fasi – nella carne viva. Così sono i legami di famiglia.
Forse stavolta, però, l’avrei scampata, mi dicevo: erano altre le questioni da affrontare.
Entrando nell’elegante casa napoletana, ancora col cappotto e la sciarpa, avevo capito che c’era aria di tempesta. Avevo sceso la scala a chiocciola e, per prima cosa, avevo visto il papà seduto al tavolo della cucina – un tappeto verde ingombro di carte da gioco, di cartelle e numeri di tombola -: dentro al cono di luce della lampada, Domenico faceva uno stizzoso solitario. Le figlie di Emma – mia sorella minore, la terza sorella – Gaia e Isabel, in piedi attorno al tavolo, coloravano alcuni fogli ma avevano la faccia scura. La vecchia mamma Melina, piccola quasi evanescente nei suoi quaranta chili, si aggirava tra tavolo e lavello ciabattando in vestaglia e si affannava a far gli onori di casa (ma come, proprio lei? Non era lei la malata?).
“Agata, che sei venuta a fare? – mi aveva detto aspra con la sua vocina di fil di ferro rugginoso – Che bisogno c’era? Qui c’è confusione! Siamo già in tanti e … ora sei arrivata pure tu! E poi Emma non sta bene, ha, ecco … ha un po’ di febbre. Sai com’è, con questo vento.” (Sempre quello spasmodico bisogno di mantenere la facciata. Anche con me. E poi per cosa? Lì tutti sapevano tutto).
Poco dopo era scesa Tessa, la padrona di casa; era al telefono, parlava con una paziente di un appuntamento che, solo per farle un favore, le fissava fuori dalla tabella-orari pattuita.
“Sono contenta che sei arrivata, Agata. Speriamo che stavolta si riesca a realizzare qualcosa.” aveva detto con il suo solito pragmatismo, e intanto lanciava uno sguardo fuggevole alla sua immagine riflessa dal grande specchio sul camino, accennando un sorriso con quell’impercettibile sussiego che le apparteneva e che mi aveva sempre irritato, già da bambina “Vieni, sistemiamo la valigia.”
“Ma cos’è quest’aria pesante, cos’è successo?” Avevo chiesto a mezza voce, mentre salivamo al piano superiore ed entravamo nella stanza da letto.
“È da ieri che discutiamo di Emma e del marito. Ho detto che tu venivi qui proprio per incontrare l’avvocato e trovare insieme una soluzione, una volta per tutte. Ma lei è scoppiata a piangere, ha urlato che la sua vita è un inferno, che il marito ha ripreso a picchiarla e ha detto che noi non dobbiamo farle pressioni di nessun tipo. Noi non capiamo niente! Anche il papà è sbottato, dice che è tremendamente addolorato per quello che succede a Emma ed è infuriato con noi due e la mamma, perché – dice – lui non ne sapeva niente, nessuno gli racconta mai nulla.”
“Ma come, non sapeva niente? Sono dieci anni che lo sa. Piuttosto,… che dici! Diego ha ripreso a darle botte? Ci sono stati nuovi episodi, allora!”
Tessa faceva di sì con la testa, ma non voleva parlarne; con le mani perfettamente curate si accomodava una ciocca di capelli ramati.
Poco dopo eravamo in cucina, a scartare i doni che avevo portato da Milano.
Qualche minuto ed entrò Emma, infagottata nel suo pigiama di Hello Kitty, i capelli rosso fiamma sparati in aria, gli occhi gonfi dietro le lenti. Una palla rosa di dolore e di ciccia.
Entrò stringendosi in una coperta e corse a raggomitolarsi sul divano. “Ciao, Agata. Che freddo del cavolo, vaffa… E che bell’ultimo dell’anno! piove e tira vento pure a Napoli.”
“Dai Emma, vai a prepararti, – disse Tessa – Agata beve il caffè e ci muoviamo. L’avvocata ci riceve stasera, anzi, dati i nostri rapporti professionali, ci fa il favore di venire qui.
Andiamo a prenderla noi.” Poi, guardandomi con la coda dell’occhio. “Agata, … ehm, vai a prenderla tu, vero Agatina? Io devo ricevere una paziente che non sono riuscita a rimandare. Dai, col taxi, è facilissimo.”
Mi sentivo stanca, del viaggio e della lunga giornata che avevo sulle spalle, ma dovevo farcela, la faccenda di Emma era la cosa più importante. Finalmente la terza sorella avrebbe parlato con un avvocato (e Diego, il marito, non avrebbe saputo nulla). Quanto ci avevamo fantasticato su io e Tessa e come avevamo predisposto bene ogni cosa. E ora il nostro progetto sembrava realizzarsi.

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