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13 ottobre 1940.
La struttura che accoglieva i ragazzini sventurati – orfani o comunque lontani dai loro genitori – era ormai al limite della sopportazione. Le vecchie pareti in legno stavano per cadere a pezzi. Era maleodorante, a ogni passo rispondevano scricchiolii sinistri; l’unico punto a favore risiedeva nello staff – docenti, cuochi e personale vario – che faceva il possibile per accogliere e rassicurare quelle povere anime, anche se alcune di esse mettevano costantemente a dura prova la loro pazienza.
Michael era uno di quegli individui. Dodici anni di puro spirito ribelle e menefreghista nei confronti di un mondo che gli aveva tolto tutto. Gli adulti della struttura lo definivano un “casinista”, in grado di plagiare e portare con sé nei guai tanti altri ragazzi. Quella volta, tuttavia, la situazione degenerò…
«Andiamo David, passami quella colla!»
Il piccolo David rovistò nella tasca felpata del suo pigiamone.
«Tieni» rispose timidamente, porgendo all’amico il tubetto.
Michael lo afferrò, svitò il tappo e, con il favore dell’oscurità, attuò il suo piano. Lentamente il liquido ricoprì la maniglia della porta della stanza dell’amministratrice.
«Questo è per avermi tirato il righello sulla mano, stronza.»
David si tappò le orecchie: «Non si dicono le parolacce!»
«Ah, davvero? Stronza stronza stronza stronza stronza stronza!»
«SMETTILA!»
Michael gli mise una mano sulla bocca. «Razza di deficiente, vuoi farci scoprire? Urla ancora e ti chiudo la bocca con la colla.»
Il bambino, terrorizzato dalla minaccia, cercò di prendergli la colla per gettarla lontana, in fondo al corridoio.
«Cosa vuoi fare eh moccioso.» Michael lo spinse contro la maniglia, che immediatamente fece presa sulla mano del piccolo David.
Michael, tra un sogghigno e uno sbuffo, decise di intervenire spingendo per liberarlo dalla maniglia. Il pianto e le urla di David ormai avrebbero svegliato chiunque, ma il rumore più forte che echeggiò nel corridoio fu causato dal tonfo in terra dei due ragazzi.
A quel punto le luci si accesero: la sovrintendente corse verso i due, inorridita dal vedere la mano di David ridotta a un guanto di carne viva.
Appena anche gli altri docenti riempirono il corridoio – assonnati, ma reattivi alla vista del sangue che continuava a gocciolare sul pavimento – portarono di peso David in infermeria, mentre la sovrintendente concentrò le proprie energie schiaffeggiando più volte Michael, incapace di difendersi e travolto dalla situazione. «Nel mio ufficio, subito!»
Il ragazzo si tirò velocemente in piedi, evitò di calpestare il sangue e, senza una parola, seguì la donna.
Era la prima volta che entrava in quella stanza. Vide due grandi librerie, un pendolo che ticchettava solitario a destra della porta, un piccolo tavolo in legno di ciliegio – la sovrintendente nel frattempo continuava a scrutarlo, seduta sulla sua poltrona in pelle e coi gomiti ben poggiati sulla scrivania che riempiva il centro della stanza – e una sedia logora; probabilmente da lì avrebbe subito la solita rimproverata. Ma erano soprattutto gli oggetti sulla scrivania a incuriosirlo: c’erano tre fotografie, due delle quali ritraevano delle giovani ragazze pressoché identiche, mentre l’altra era la sovrintendente da giovane, chissà quanti anni fa. Parte della superficie era occupata da parecchi fogli impilati uno sull’altro in maniera confusionaria, in procinto di cadere e sparpagliarsi a terra.
«Siediti.»
Micheal obbedì evitando di guardarla per non darle la soddisfazione del viso ancora arrossato dagli schiaffi. Un pugno sul tavolo fece sobbalzare il giovane; la donna si alzò in piedi, lo sguardo era di chi stava per emettere una sentenza. «Non sappiamo più cosa fare con te. Non è un caso che tu non sia ancora stato adottato! Sei qui da più tempo di tutti e ti ostini a non… capire.»
La donna prese uno dei fogli sulla scrivania, lo mostrò a Michael.
«Questo posto è per quelli come te, contento? E non credere… lì non potrai permetterti tutte queste spacconate.» La sovrintendente sogghignò, ma anche questa volta Michael sfuggì al gioco di sguardi. «La festa è finita, Michael.» La donna si alzò dirigendosi all’entrata, mentre il ragazzo sentiva mancargli anche le forze per seguirla con lo sguardo. «Vado a controllare come sta David, povera creatura. In quanto a te… prepara la valigia. Partirai stanotte.»
Dopo quelle parole, uscì dall’ufficio.
Michael rimase immobile per un minuto intero prima di alzarsi e approfittare della solitudine per dare meglio un’occhiata al foglio della struttura.
La Casa della Speranza, orfanotrofio e riformatorio.
Crescere e imparare, insieme.
Pasti caldi, ottima vista lago, ambiente accogliente e familiare.
Non vi era scritto altro, né indirizzo, né immagini o indicazioni del luogo.
Un altro foglio sul tavolo attirò l’attenzione del giovane; elencava serie di numeri barrati, fatta eccezione per tre gruppi, gli ultimi della lista.
D11897
D11239
D11898
Prima di alzarsi – forse anche per guadagnare tempo e allontanare di un poco il destino che lo stava attendendo al di là della struttura – pose fugacemente l’attenzione su quelle fotografie, ne prese una, ipotizzò che quella ragazza fosse la figlia della sovrintendente. Dall’interno della cornice, sporgeva un fogliettino mezzo bruciacchiato, sembrava essere una vecchia lettera. Il giovane, sempre più incuriosito, la lesse.
“Ho trovato l’uomo della mia vita, abbiamo da poco avuto un figlio, ma esso altro non è che un diavolo. I suoi occhi rossastri e il suo pallore ci hanno portati ad abbandonarlo. Madre, Padre, spero capirete, ma il mio viaggio in Germania non poteva essere minato da questa cosa, quello che ho dato alla luce non era perfetto… Mi dispiace molto. Sarò a Berlino se avrete bisogno.
Un abbraccio. Steph.“
Michael ripose la lettera nella cornice per non destare sospetti, poi sbirciò il retro della seconda fotografia. Vi era una scritta in oro, consumata: “Ricordando Sophie, spero tornerai presto. 1920.“
A quel punto, annoiato da vicende che non gli appartenevano, si diresse al proprio alloggio per preparare la valigia.
Mentre la riempiva, i suoi compagni di stanza lo guardavano spaventati e silenziosi per paura di poter fare la medesima fine.
«Potete parlarmi eh, nessuno vi uccide.» Nessuno dei presenti gli rispose. «Come volete» concluse stizzito.
Un suo compagno di stanza d’un tratto gli rivolse la parola: «Abbiamo saputo cos’hai fatto a David.»
«È stato un incidente, non doveva succedere» rispose Michael mentre continuava a piegare vestiti e biancheria.
«Hanno detto che potrebbe essere a rischio di infezioni e…»
«PIANTALA, ZITTO!» Il ragazzo provocò un silenzio glaciale, dopodiché riprese a piegare gli indumenti.
«Ti mandano a quell’altro orfanotrofio, la Casa della Speranza… vero?»
«Perché? Sai dov’è?»
«No… però ci sono brutte storie su quel posto. Dicono che nessuno sia mai stato adottato lì… nessuno è mai fuggito.»
«Anche di questa baracca dicevano che c’erano i fantasmi, i mostri… e invece nulla… sono leggende per comandarci.»
Il discorso venne interrotto dall’ingresso nella stanza della sovrintendente. «È ora di partire. Saluta e andiamo.»
Michael mise alla rinfusa gli ultimi indumenti, chiuse il tutto, salutò con tono demoralizzato e varcò per l’ultima volta la soglia di quella porta.
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