Il sogno del Ciclope

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di Bruno Carè

 

Quanti dettagli si perdono ogni volta che la storia principale si conclude?
E degli sconfitti, una volta dimenticati, cosa rimane se non il ripetersi della loro disfatta, tramandata nel tempo?
E se, e se, e se… insomma: ma che ne è stato di Polifemo, dopo l’umiliazione che gli ha inflitto Ulisse?
Eccolo pronto a raccontare la sua verità con “Il sogno del Ciclope”; accecato, deriso, risoluto nella vendetta, una vendetta che lo costringe ad abbandonare la sua isola per affrontare gli Dei e le loro prove.
Ma poi, davvero la vendetta è sempre e solo negativa?
E se si tramutasse in redenzione?
«Sei divertente forestiero, se mi dirai il tuo nome ho deciso che ti mangerò per ultimo come segno della mia ospitalità…»
«Nessuno è il mio nome.»

 

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Dal Diario di Ulisse…

La guerra era vinta, il nemico sconfitto e un senso di pace invadeva l’intera flotta.

Era tempo di far riposare i compagni: il mio sguardo scrutava l’orizzonte, alla ricerca di un posto tranquillo dove passare la notte.

Fu così che d’un tratto comparve una piccola spiaggia, né troppo vicina né troppo lontana dall’isola dei Ciclopi. Una volta raggiunta restammo sdraiati sulla sabbia, cullati dal suono delle onde in attesa della divina Aurora.

Rimasi a guardare la selva che da lontano ricopriva l’isola e pensai alle storie che si raccontavano sui Ciclopi, arroganti e malvagi, che per campare si affidavano a ciò che gli era stato concesso dagli Dei per averli aiutati nella guerra contro i Titani.

Loro non avevano bisogno di arare la terra, né di piantare nessun seme perché l’orzo, il frumento e le viti venivano nutrite dall’acqua piovana di Zeus.

Loro non facevano comizi popolari e non vivevano di leggi, dimoravano sui vertici dei sommi monti, all’interno di grotte profonde, in compagnia delle innumerevoli capre selvagge che popolavano l’intera isola, senza timore di essere cacciate. E forse fu proprio per questo che le bestie si avvicinarono a noi, belando di tanto in tanto alla Luna e conciliando ancor di più il nostro sonno.

 

La mattina seguente le capre erano ancora lì, come in attesa di una carezza da parte nostra, quando invece le nostre mani stringevano la lama per soddisfare la fame; la caccia non ci fu mai così facile e decidemmo di portarne alcune sulle navi come scorta per il viaggio. Avevamo del buon vino e carne in abbondanza; l’animo dei miei compagni era allegro e spensierato, così decisi di passare un’altra notte in questo luogo fantastico. Pensavo alle meraviglie che ci aspettavano dall’altra parte dell’isola e, fiducioso della benevolenza degli Dei, dormivo tranquillo.

Al risveglio radunai tutti i miei compagni: «Ho deciso di esplorare l’altro lato di questo atollo, verranno con me solo i dodici più fedeli, voi resterete qui fino al nostro ritorno. So che siete preoccupati a causa delle storie che echeggiano sui Ciclopi, ma non temete: gli Dei sono dalla nostra parte!» Indicai con il braccio l’abbondante selvaggina sulle navi per rasserenarli.

Raggiunta la parte più remota dell’isola scorgemmo una spelonca altissima ricoperta da un tetto di lauri dove pareva solito pernottare molto bestiame, intorno alla corte un recinto con pietre affondate nel terreno e alte querce dalla chioma immensa.

Era la tana del mostro che la leggenda narrava, un essere gigantesco con un solo occhio sulla fronte. La sua forza era smisurata, cresciuto nella bottega di Efesto, come del resto la maggior parte dei Ciclopi, maestri del fuoco e dei metalli che contribuendo alla realizzazione delle armi invincibili degli Dei erano stati premiati con questa terra meravigliosa…

Ben presto ci trovammo all’entrata della spelonca ma il gigante non c’era, così decisi di entrare e, con mio grande stupore, mi accorsi che le pareti erano coperte di ripiani colmi di formaggi, recinti ben ordinati circondavano l’area, all’interno riposavano agnelli e capretti primaticci, in uno i mezzani e in un altro ancora i più teneri.

I compagni mi esortavano a prendere i formaggi e a fuggire via, ma io volevo veder di persona questo gigante: dopotutto, la mia voglia di scoperta aveva sempre prevalso sulla paura.

Con un sorriso cercavo di calmarli: «Le leggi dell’ospitalità imposte da Zeus se non rispettate possono avere conseguenze molto gravi. State tranquilli.»

Spaventati annuivano senza dire una parola, così aspettammo seduti il suo ritorno, accendemmo il fuoco, facemmo offerta agli Dei di formaggio e incominciammo a mangiare.

Ad un tratto uno dei miei compagni rimase impietrito, con lo sguardo rivolto verso l’ingresso della spelonca, si era accorto dell’arrivo del Ciclope con il suo gregge. Portava un carico di pesante legna che gettò a terra facendo spaventare tutti i presenti. Levò in alto un grande masso, lo mise davanti all’entrata e fu in quel momento che ci rendemmo conto di essere in trappola.

 

Noi rimanemmo in silenzio, mentre lui si sedette per mungere le capre, tutto con estremo ordine, sotto ogni madre avviava il suo piccolo; subito dopo faceva cagliare la metà di quel bianco latte, lo ammassava, lo stringeva per poi disporlo in canestri di vimini. Quando sbrigò tutte quelle faccende, accese il fuoco e ci domandò: «Forestieri chi siete? Da quali vie del mare venite?»

Il suo vocione faceva paura, ma mi feci forza: «Siamo Achei, veniamo da Troia. Siamo guerrieri in ritorno verso la nostra patria e, capitando qui, supplichiamo in ginocchio un dono come da sempre è dovere per gli ospiti… Zeus è vendicatore per coloro che non rispettano le sue leggi e le nostre navi sono protette dal buon volere degli Dei.»

Il mio eloquente discorso venne interrotto bruscamente dal Ciclope: «Uno sciocco sei, arrivi da molto lontano tu che m’inviti a temere gli Dei, a schivarne la collera… I Ciclopi non si danno pensiero di Zeus né degli altri Dei. Non intendo risparmiare le vostre vite per evitare la sua collera e lo farò solo se ne avrò piacere.  Sono invece curioso di capire dove avete approdato le vostre navi…»

 

Non mi sfuggì la sua mira e gli risposi con l’intento d’ingannarlo: «Le navi le ha distrutte Poseidone scaraventandole sulle rocce della tua terra, solo io e i miei compagni siamo riusciti a evitare la morte.»

Ci guardammo intensamente, poi all’improvviso il Ciclope allungò le mani su due dei miei compagni, li afferrò e ne fece la sua cena. Alla vista di quella scena orribile un’impotenza smisurata ci fermò il cuore. Mi sentivo responsabile di ciò che stava accadendo.

Quando il Ciclope fu sazio decise di bere un gran vaso di latte e crollò al suolo, così, sospirando e gemendo, aspettammo la divina Aurora.

Nella notte fremevo dalla voglia di sfoderare la mia spada e ferirlo mortalmente, per poi rendermi conto che nessuno sarebbe stato in grado di muovere quell’enorme sasso dall’ingresso.

L’indomani il Ciclope accese il fuoco e sbrigò le sue faccende, tutto con ordine; quando terminò mi fissò ancora una volta intensamente e senza dire una parola afferrò altri due compagni facendone il suo pranzo.

Questa volta il mio sguardo era diventato più duro e, mentre lo fissavo divorare i miei compagni, progettavo la sua rovina…

Nel frattempo il Ciclope prese un gran vaso di latte e, dopo essersi riempito lo stomaco, spostò il grande masso, fece uscire le bestie, poi richiuse l’entrata lasciandoci da soli all’interno della grotta.

Fu in quel momento che tutto mi parve chiaro.

«Non temete, ho un piano per uscire da qui. Vedete quel grosso ramo d’ulivo ancora verde, lo raschieremo e gli faremo una punta acuminata, lo bruceremo dentro al fuoco rovente e infine lo nasconderemo sotto il letame. Quando si addormenterà lo useremo per accecarlo.»

«Ma come faremo a scappare?» interruppe uno dei miei compagni, così li radunai ancora più stretti e continuai a parlare: «Vedete quei montoni? Legheremo tre di loro insieme e in quello di mezzo ci sarà uno di voi legato sotto il suo panciotto. Io resterò sotto il vello del suo Ariete e uscirò per ultimo, quando toglierà il masso per farli andare fuori a pascolare ne approfitteremo per darci alla fuga con loro…»

La sera il Ciclope arrivò dal pascolo con le sue bestie e, dopo aver sbrigato le sue consuete faccende, mi guardò nuovamente con l’espressione beffarda e di sfida, così prese ancora due dei miei compagni facendone la sua cena.

Non c’era tempo da perdere, così mi feci avanti offrendogli una ciotola del mio vino e, inchinandomi a lui, pronunciai queste parole: «Ciclope ti offro del buon vino così scoprirai quali prelibatezza tenevamo in serbo per la tua ospitalità, ma purtroppo non sei stato ragionevole con noi e non mi rimane altro che bere insieme a te le ultime gocce di questo nettare squisito prima della fine…»

Lui per un attimo esitò poi, dopo avermi invitato a bere per primo, si mise la ciotola alla bocca e si convinse a farlo.

«È delizioso, versamene ancora un po’.»

L’espressione del Ciclope si fece più rilassata, mentre io cercavo di fare conversazione facendo attenzione a non lasciare mai vuota la sua ciotola. Continuavamo a parlare come vecchi amici fino a quando il Ciclope esclamò: «Sei divertente forestiero, se mi dirai il tuo nome ti mangerò per ultimo come segno della mia ospitalità…» Cominciò a ridere a squarciagola.

Anch’io sorrisi nel rispondergli: «Nessuno è il mio nome.»

Il Ciclope continuò a ridere e ormai ubriaco sentenziò: «Nessuno, sarai mangiato per ultimo.»

Riuscì a malapena terminare la frase, crollò al suolo e si addormentò.

Tutto era andato secondo il piano: chiamai i miei compagni e col ramo d’ulivo acuminato infilzammo il suo grande occhio. Le urla del Ciclope si mescolarono con lo sfogo della nostra rabbia… Lui si tolse il legno arroventato dall’occhio e lo scaraventò sulla parete gridando come un folle. Alcuni ciclopi che abitavano nelle vicinanze accorsero fino all’entrata della spelonca: «Cosa è successo Polifemo? Chi ti fa gridare nel cuore della notte? Qualcuno sta cercando di rubarti il gregge o di ucciderti con l’inganno?»

Polifemo ancora sofferente gridò: «Amici miei Nessuno mi vuole uccidere, con l’inganno e non con la forza…»

«Se dunque nessuno ti fa violenza, il male ti viene dal grande Zeus e non c’è modo di evitarlo, non possiamo fare nulla per te.»

Polifemo era furibondo, decise di togliere il grosso masso dall’entrata, lo raggiunse a tentoni, lo fece rotolare da un lato e si sedette a terra, ostruendo l’uscita, poi distese entrambe le mani: «Provate a passare forestieri…»

Io esortavo in silenzio i miei compagni a legarsi tra il trio di montoni come previsto mentre io mi legai sul panciotto del grande Ariete e così aspettammo la divina Aurora.

Il mattino seguente i montoni si avviarono verso l’uscita. Il loro padrone, tormentato da spasmi atroci, tastava con le mani la schiena di tutte le bestie e, ignaro del fatto che i miei compagni fossero legati al di sotto, le lasciò uscire all’aperto. L’ultimo dell’intera mandria era l’Ariete, appesantito dal suo pellame e dal mio peso.

«Caro Ariete perché esci per ultimo? Di solito sei il primo a pascolare i teneri germogli dell’erba, il primo a giungere alle correnti del fiume, il primo ad aver voglia di tornare alla stalla verso sera. Ora sei l’ultimo, forse perché anche tu piangi l’occhio perduto del padrone… Ora va’, mio amato Ariete.»

Appena ci accorgemmo di essere lontani dalla spelonca ci slegammo dalle bestie e insieme a loro ci dirigemmo verso le nostre navi dove ci aspettava con ansia il resto della truppa. Facemmo salire i montoni e ci imbarcammo velocemente; sedevamo uno dietro l’altro battendo coi remi il mare biancastro, come forsennati.

Quando le nostre navi furono abbastanza distanti ordinai ai marinai di passarmi il corno, loro intuirono le mie intenzioni e mi esortarono invano a continuare la nostra fuga in silenzio… Ero colmo di collera e provavo un insanabile dolore nel petto per aver perso sei dei miei compagni e non ero ancora soddisfatto della punizione che aveva subito il Ciclope, così decisi di prendermi gioco di lui ancora una volta per fargli ribollire il sangue e soddisfare la mia sete di vendetta. Afferrai il corno e con tutto il fiato in gola gridai: «Ciclope questo è il mio dono per la tua ospitalità, sei stato sconfitto con l’inganno da un minuscolo uomo e gli Dei ti hanno punito… E se qualcuno ti chiedesse chi è stato a procurarti questa disgrazia tu risponderai Ulisse, figlio di Laerte d’Itaca. Ecco ora dovrai accettare che sei stato punito non solo per la tua arroganza ma anche per la tua stupidità.»

Il Ciclope, da lontano, urlò di rimando: «Ulisse dici di chiamarti, povero sciocco. Tu non sai chi sono io… Sono il figlio di Poseidone e di certo lui ascolterà le mie volontà!»

Il respiro mi si era fermato mentre lo ascoltavo esortare con tutto il fiato che aveva in corpo il Dio del Mare.

«Ascolta padre, Dio dalla chioma azzurra, se è vero che sono tuo figlio concedimi che Ulisse non torni più in patria, se gli Dei hanno deciso di farlo tornare, fai in modo che ci torni il più tardi possibile, dopo aver perso tutti i suoi compagni, su navi d’altri e trovi a casa sua solo guai.»

Lo ascoltavo impietrito e con le mani tremolanti scaraventai il corno sulla poppa. Ancora una volta non avevo dato ascolto ai miei compagni…

Quando arrivammo finalmente nell’isola dove erano raggruppate le altre navi, la truppa era afflitta e allo stesso tempo euforica nel vederci ancora vivi.

Era mio compito sollevare l’animo di tutti, così decisi di spartire il bottino della spelonca e sedemmo sulla spiaggia a bere e a mangiare per tutta la notte, poi sacrificai a Zeus il grande Ariete con la speranza che ci aiutasse a tornare a casa sani e salvi.

Il mattino seguente apparve in cielo Aurora e ordinai ai miei compagni di risalire sulle navi e di sciogliere le vele in poppa.

Navigavamo lieti di essere salvi e allo stesso tempo tristi nel profondo del cuore per aver perso i nostri compagni.

In quanto a me… avevo rivelato la mia vera identità con il fine di ferire l’orgoglio del Ciclope ed ero ripartito fiero di aver mostrato la mia vera natura, quella che nell’ombra mi aveva salvato e portato alla vittoria sui Troiani. Ma quella luce, quella luce che stava schiarendo l’orizzonte, forse era il presagio della mia condanna…

Il Buio del Sonno

Polifemo era furibondo, le grida echeggiavano in tutta l’isola come un eterno lamento. Continuava a sfregarsi l’occhio, ardente come il suo cuore pieno di rabbia e disprezzo per quell’uomo che si era preso gioco di lui. Ora, nel buio più totale, non era più in grado di capire cosa gli stesse accadendo. Il dolore si faceva sempre più insopportabile e dopo alcune ore anche le forze lo abbandonarono.

Alcune capre erano ritornate nella caverna spaventate da quelle urla mostruose, e fu così che goffamente riuscì a trovare la strada verso la sua spelonca. All’interno poteva udire distintamente il belato di due capretti, l’animo impetuoso si calmò e la rabbia a poco a poco fece spazio all’amarezza e alla delusione.

Sentiva ancora in bocca il sapore di quella bevanda maledetta che lo aveva reso debole e allo stesso tempo euforico. Prese i resti di una brocca e li scaraventò sulla parete. I due capretti scapparono fuori dalla caverna.

Polifemo rimase completamente solo, cieco e, ormai allo stremo delle forze, perse i sensi e si addormentò…

 

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