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Prologo
Lo spettacolo era terminato.
In una temperata sera d’estate un soffice venticello scendeva sui nostri volti per accarezzarci le gote con le sue dita gentili, tornandosene poi verso il cielo stellato con una raffica ascensionale.
Ho sempre amato quel particolare rumore della brezza che sfiora le orecchie e scompiglia i capelli. Le stelle brillavano alte e indisturbate, la loro bellezza non era offuscata da nessuna nube, né nomade né sedentaria. Non faceva caldo, ma l’aria riscaldava l’atmosfera abbastanza da renderla gradevole. Uscita da un ingresso laterale dell’Arena, fui colta da un soffio di vento tanto forte da farmi indietreggiare. Me ne riempii le narici e il petto inspirando forte, poi misi un piede avanti per equilibrarmi e allargai le braccia in uno slancio colmo di vita. La brezza sollevò la gonna del mio vestitino di flanella rosa pallido e mi sciolse i capelli, portandosi via il fermaglio che li aveva uniti in un’elegante acconciatura. In quell’istante compresi che cosa fosse realmente la libertà: diventare un tutt’uno con la natura, con i suoi abitanti, con i suoi odori, coi suoi soffi rumorosi; acquisire la consapevolezza che facciamo parte di un organismo vivo e funzionante, che non siamo mai soli, poiché tale organismo è formato da tanti piccoli elementi che, come noi, fungono da ingranaggi. Tuttavia, ciascuna di queste tante particelle è un nucleo a sé stante, un’unità solitaria a cui nessuno potrà mai confiscare il bene più prezioso: la libertà, ovvero la capacità di decidere della propria vita e di renderla straordinaria.
Io stessa, una gracile bimbetta di soli cinque anni, ero solita immergermi in tali riflessioni, ma non ci indugiavo mai per più di qualche minuto, in quanto era impossibile non venire interrotta.
“Morgan! Accidenti a te, piccola peste. Vedi bene di non ammalarti o saranno guai!”.
Questo monito severo giunse dalla signora che mi stava alle spalle e mi aveva appena colta nel mio momento di pace e serenità.
“Miss Hill, non sente che atmosfera?” dissi senza muovere un muscolo rispetto alla posizione in cui mi trovavo prima e che l’aveva tanto indispettita.
“No, sento soltanto la tua vocina petulante che tenta di contraddirmi. Vieni qui subito o le prenderai!”, la faccia le si era arrossata e ogni volta che apriva bocca per sputarmi addosso qualcosa di crudele e insultante era solita raddrizzare la schiena e portare in fuori il petto, così da mostrarsi fiera e altera.
Una volta almeno aspettava di avermi trascinata a casa prima di picchiarmi, lontana dagli sguardi scrutatori della gente che avrebbe potuto giudicarla crudele e violenta. Da qualche tempo, invece, l’aveva raggiunta la convinzione, basata sulla realtà dei fatti e sulla loro osservazione, che tutti coloro che la circondavano avrebbero perfettamente compreso se avesse voluto impartire della sana disciplina (a quanto pare anche a suon di manate) su un’orfanella povera e sciagurata che lei era stata sin troppo magnanima ad adottare.
Proprio così, la buona e caritatevole Miss Hill si era presentata all’orfanotrofio Children’s care di Londra sei mesi prima e aveva deciso di farsi carico di una bimba povera in carne (?), vestita di stracci e tutta impolverata, dagli occhioni neri e i capelli di un castano smunto.
L’avermi adottata era stata solo una questione d’immagine per la ricca ereditiera, la cui età avanzata era per lei una costante minaccia; le rammentava il poco tempo rimasto per fare di sé una vera e propria diva da imitare sotto ogni aspetto. In fin dei conti, mi aveva sempre detestato, tanto da arrivare spesso a prendermi a vigorose cinghiate. Ma mai una lacrima avevo pianto per lei e per nulla al mondo mi sarei piegata alla sua crudele volontà. Anzi, amavo indispettirla e provocarla, tanto per dimostrarle che la odiavo anch’io, con tutta l’anima.
“Ai suoi ordini Miss., tuttavia sono giovane e voglio godere delle bellezze della natura… lei è vecchissima, ne avrà già goduto!” e nel dirlo riaprii gli occhi e sorrisi compiaciuta.
Miss. Hill divenne un peperone, aveva i nervi a fior di pelle, a tal punto che credevo scoppiasse; sfortunatamente non successe, ma sarebbe stato meglio dello spettacolo a cui avevo appena assistito.
“Piccola stracciona insolente! Adesso te le buschi!” e si slanciò per inseguirmi con un’energia quasi comica; sembrava una vecchia gatta sciancata che cercasse invano di acciuffare un furbo e agile topolino. Io scappai avvantaggiata dal vento che ora spirava in mio favore e dal fatto che i tacchi della vecchia la rallentavano non poco. Mi girai per accertarmi che la mia nemica non mi stesse raggiungendo e fui così divertita dal vederla ruzzolare a terra imprecando che mi uscì una sonora risata.
Sta di fatto che, non avendo più prestato attenzione a dove stessi andando, mi scontrai con un uomo alto e massiccio, vestito come il direttore di un circo (evidentemente uno di quelli che avevo visto all’opera circa mezz’ora prima). Aveva una giacca rossa rivestita di paillettes, calzoni aderenti neri e degli stivaloni con le ghette che facevano quasi più rumore dei tacchi a spillo della megera.
Quello strano individuo mi parlò dai suoi baffoni incolti: “Accidenti, ragazzina, guarda dove metti i piedi!”, mi scostò bruscamente con il braccio lungo e muscoloso e se ne andò brontolando.
L’episodio mi aveva fatto completamente scordare il perché mi trovassi lì e chi mi stesse inseguendo. Perciò mi guardai intorno per poi scoprire che ero entrata in un tendone che brulicava di persone. Vidi molti bimbi accompagnati dalle loro famiglie, signori anziani che passeggiavano con le loro dame, gente in ghingheri che si parlottava nelle orecchie o sottovoce; ma scorsi anche molti dei circensi che mi avevano allietato poco prima con la loro performance. Sarei corsa da loro per riempirli di domande, se solo un altro particolare non avesse attirato la mia attenzione. Alla mia sinistra c’erano dei piccoli recinti, con sbarre di acciaio e il pavimento di cemento ricoperto di segatura, e notai che accoglievano dei cavalli meravigliosi. Il primo recinto a partire dall’ingresso ospitava un frisone alto e maestoso, tutto intento a mangiare la sua biada; nel secondo, invece, vidi un simpatico Pinto a cui non erano ancora stati tolti i finimenti; più avanti c’erano molte altre razze da me subito riconosciute (sì, ho sempre amato i cavalli), più due simpatici pony che riposavano l’uno di fianco all’altro.
Ma fu l’ultimo recinto a colpirmi maggiormente: qui rimasi a fissare un’elegantissima giumenta araba, impegnata ad allattare il suo piccolo puledro. Questo si staccò dalla mammella della madre e girò il musetto verso di me. Sostenemmo lo sguardo l’uno dell’altra per quella che sembrò un’eternità, quando all’improvviso sentii delle parole risuonare nella mia mente quasi come un’eco: “Vuoi farmi del male?” Mi girai, ma mi accorsi di non avere nessuno tanto vicino da poterlo comprendere così chiaramente. “Mi fai paura, ma mi incuriosisci anche!” Appena avvertii queste parole, mi voltai nuovamente verso il recinto e notai che il puledrino si era leggermente avvicinato. Il cucciolo alzò la testa verso di me: “Perché mi fissi?” Rimasi allibita, ma finalmente compresi: quelle “parole” non mi erano giunte tramite l’udito, ma erano il risultato della nostra comunicazione mentale, mia e dell’animale. In qualche modo sentivo i pensieri di quel puledrino, cosa che ancora oggi mi lascia costantemente stupita (pur essendoci abituata), ma che all’epoca, nella mia ingenuità, non mi suscitò molte domande. Mi convinsi di essere una bimba speciale e questo mi riempì d’orgoglio e gioia.
Crogiolandomi nel mio nuovo potere, allungai una mano verso il puledro e gli sussurrai di venire, ma lui non mosse un muscolo. Allora capii che dovevo provare a comunicare con lui attraverso il pensiero. Come ho fatto a non arrivarci, sono come una fata, sono speciale, pensai.
Lo fissai e provai a far risuonare la parola “vieni” nella mia mente. Poi chiusi gli occhi, non so esattamente il perché, forse non volevo assistere ad un probabile fallimento, che mi avrebbe privato della convinzione di essere una specie di maga. Ma fui costretta a riaprirli quando avvertii qualcosa di caldo sulla mano: era lui, il puledro, e si era avvicinato tanto da leccarmi dolcemente.
“Strano! Sei la prima che riesce ad avvicinarlo”. Sussultai, quelle parole questa volta non provenivano dal cavallo, ma da una figura femminile giunta alla mia destra senza che io me ne accorgessi.
“Scusami, non volevo spaventarti, piccola. Ho notato che sei riuscita a fare amicizia con Atlas, impresa per nulla semplice, mia cara. Stanne certa!” mi disse gentilmente. Era una donna sui trent’anni, dal viso molto grazioso, con occhi bruni e lucenti, una chioma fluente castano-chiara e denti bianchi che rendevano il suo sorriso simile a quello di un angelo. Mentre mi parlava si avvicinò e appoggiò una delle sue gracili mani sulla mia spalla; un gesto gratuito e tenero, tanto da provocarmi un’enorme fitta al cuore. Credo di poter dire, senza esagerare, che in quasi sei anni di vita non avevo mai ricevuto un gesto di gentilezza. All’orfanotrofio venivo maltrattata più degli altri bambini e delle altre bambine, poiché ero l’unica ad avere il coraggio di ribellarmi ai soprusi di quelle vecchie streghe delle suore che lo dirigevano. Spesso passavo le giornate rinchiusa in uno sgabuzzino, un posticino che condividevo con dei sudici ratti. Stavo dicendo, all’orfanotrofio nessuno è mai stato buono con me e per quanto riguarda Miss Hill, beh, non credo serva aggiungere altro.
“Come ti chiami, cara?” mi chiese soavemente la donna.
“M-Morgan” balbettai, cosa che mi lasciò perplessa, dal momento che mai prima di quel momento avevo avuto difficoltà a parlare con nessuno. Avevo sempre affrontato chiunque a testa alta.
La donna sgranò gli occhi e venne colta da uno spasmo; me ne accorsi perché il braccio che mi teneva la spalla tremò leggermente. Come in panico, mi fece: “Morgan, c-come, non può essere. Morgan sei… q-quanti anni hai?”, al che io risposi di averne quasi sei.
La donna misteriosa indietreggiò e oramai grosse lacrime minacciavano di uscirle dagli occhi quando un uomo (pressappoco della sua età) le si fece subito accanto e le cinse le spalle affettuosamente.
“Kay, che hai? Stai piangendo?” le chiese concitato.
“La bambina dice di chiamarsi… Morgan e allora…” replicò lei e non dovette nemmeno finire la frase, perché l’uomo subito sussultò, affermando: “Tu vuoi dire quella Morgan?”.
Lei fece per rispondere, ma io glielo impedii intervenendo: “Si può sapere cosa succede? Cos’ho di tanto speciale?”, parlai con voce spocchiosa e provocatoria, i loro discorsi incerti mi avevano infastidita e quando mi infastidisco, tuttora divento intrattabile.
Prima che uno dei due potesse parlare udimmo una voce alle mie spalle: “Eccoti là, piccola peste, ti ho trovato finalmente!”. Era Miss Hill, che arrivò tutta trafelata, poi, alzando la testa verso i miei interlocutori.
“Vogliate scusarmi, signori, se questa bimba indisciplinata vi ha dato fastidio e…ma, aspetta, tu…”. Miss Hill e la donna, che, a quanto pareva, aveva nome Kay, si guardarono intensamente e con odio, il silenzio dominava già da alcuni secondi quando la vecchia decise di romperlo: “Vedo che finalmente sei nel posto che ti spetta, cara, sono contenta di aver fatto la scelta giusta. Solo, ho notato che non ti sei esibita stasera, non sei abbastanza brava?”. Sorrideva compiaciuta e la squadrava dall’alto verso il basso con superiorità e albagia. La giovane donna, all’apparenza tanto timida e sommessa, sbottò con una forza e una rabbia che non mi sarei mai aspettata di riscontrare in lei; non pareva corrispondere al quadro di donna-angelo che ne avevo dipinto nella mia mente, anche se mi aveva incredibilmente infastidito con tutte quelle storie sul mio nome, sue e di quell’altro che le stava a fianco.
“Leggerò i miei componimenti domani, signora. Comunque posso dirmi contenta di non essermi esibita di fronte ad una subdola ipocrita come lei. Vedo che è riuscita nel suo intento” disse guardandomi, “spero solo che sia consapevole del vero motivo per cui l’ha fatto, solo per alimentare il suo ego. Per quanto riguarda il discorso sulla sua immagine, le posso dire che non sarà cambiato poi così tanto, in città continueranno sicuramente a vederla come una strega.”
Di tutto il discorso di Kay, quest’ultimo punto fece imbestialire Miss Hill in modo inaudito. Posso dire di non averla mai vista tanto alterata; certo che quando si arrabbiava diventava ancora più brutta di quello che era normalmente: il naso le diveniva rosso e quasi compresso dalle sue espressioni di disdegno, e la bocca distorta in un ghigno orribilmente belluino.
Ancora non so dire se la sua reazione avesse divertito più me o la donna che l’aveva appena insultata; per un momento mi sentii incredibilmente grata nei suoi confronti, con quella sfuriata aveva ripagato tutti i soprusi che avevo dovuto subire da quella befana infernale.
“Ma come osi? Maledetta sgualdrina, forse non ti ricordi in che posizione mi trovo rispetto a te? Sai, ci sono posti molto peggiori di questo, credo che potrei fartici trasferire.”
“Non credo che le sia concesso infierire più di così e in ogni caso, dall’esatto istante in cui ho messo piede qui dentro, lei non ha più potere su di me” rimbeccò prontamente Kay.
Miss Hill non si diede per vinta: “Forse no, ma potrei farti rimanere qui per sempre. Basterebbe una mia parolina sul tuo modo di comportarti con i clienti e non vedrai nemmeno un obolo per mesi, te lo garantisco”. La donna questo colpo non avrebbe saputo pararlo e fu in quel momento che intervenne l’uomo lì vicino il quale, fino ad ora, era rimasto immobile a guardarsi le scarpe.
Era un tipo molto particolare, dai capelli castano scuri precocemente brizzolati e gli occhi azzurri come un cielo libero dalle nuvole. Quella sera non si era esibito, difatti non portava gli abiti di scena, ma semplici calzoni di un beige scolorito e una camicia bianca piuttosto stropicciata; ai pantaloni erano appese due bretelle che dondolavano verso il basso toccando gli stivali di pelle.
“Dai Kay, lascia stare…andiamo”, la prese per un braccio, ma la donna faceva resistenza, non volendo lasciare che la strega vincesse.
Miss Hill ricominciò: “Ma guarda, la tua vita da Assunta non deve poi essere tanto male. È il tuo uomo? Hai fatto in fretta a consolarti” e, dicendo questo, scoppiò in una risatina stizzosa e canzonatoria, l’odio imperversava dentro di lei e lo doveva assolutamente sputare o sarebbe esplosa.
“Signora, la prego di andarsene” la incalzò l’uomo, con un tono molto meno calmo di prima. “Ma senti, chi ti credi di essere per darmi ordini?”
L’uomo si avvicinò lentamente, scandendo la sua andatura un passo dopo l’altro finché non giunse proprio di fronte alla racchia.
“SE- NE -VA -DA” disse sommessamente, ma sillabando tutti i termini, mentre la fissava con decisione negli occhi. Rimasero così per qualche minuto, l’uno fisso nello sguardo dell’altra, quando all’improvviso Miss Hill fu colta da uno spasimo tremendo e vidi del sangue colarle dal naso. Rimasi molto impressionata, ma non mi fu concesso dire nulla perché la vecchia mi prese la mano affermando con decisione: “Andiamo via, Morgan!”. La sua voce era fredda, asettica.
Mi fece voltare e ci dirigemmo verso l’uscita. Miss Hill camminava senza dire una parola, con la schiena dritta e guardando fisso davanti a lei, quasi come in trance. Girai la testa per dare un ultimo sguardo a quei due strani individui; Kay mi stava fissando, poi, rivolta al suo compagno:
“Grazie” disse. Lui le sorrise.
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