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Celeste
L’acqua calda allevia la mia tensione e fa scivolare giù i pensieri mentre il profumo del sapone mi dà un senso di benessere e porta via la terra dalle mie unghie: ora che l’ho sepolta mi sento meglio.
Esco dalla doccia, afferro l’accappatoio e mi dirigo in cucina dove il bollitore continua a fumare; verso il tè nella tazza e, mentre ci soffio sopra e provo a sorseggiarlo, mi avvicino alla finestra che dà sul giardino e penso che ora lei è lì sotto.
Mi vesto, infilo il maglione di lana nero e, passando dalla porta della cucina, attraverso il prato; mi piace stare qui fuori anche se è dicembre inoltrato, anche se il sole ormai è calato e il buio è sceso velocemente sul paesaggio.
A quest’ora l’erba comincia a inumidirsi e la luna, che prima splendeva sopra i tetti, ora è pallida e velata di una foschia che avvolge le case come se fosse lì per aiutare la città a dormire.
Da qui, nel silenzio della notte, vedo in lontananza la chiesa della Gran Madre che veglia su Torino, osservo gli alberi di Natale e le luci intermittenti multicolori alle finestre dei condomini davanti alla mia palazzina.
Anche io mi sento intermittente, senza pensieri, in una tristezza informe.
Ripenso a qualche ora fa, a quando sentivo il freddo pungente sulle mie mani scoperte che stringevano la sfera di vetro che lui mi aveva regalato il primo Natale, quando ridendo avevamo appeso tutte le palline e disposto i pacchetti sotto l’albero fingendo di non sapere cosa contenessero.
L’interno della sfera riproduceva un monumento di Gian Lorenzo Bernini, che si trova nella chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma, e raffigura una pioggia di luce dorata che scende dall’alto per illuminare e catturare l’estasi mistica di Santa Teresa d’Avila. Un capolavoro, un’opera stupefacente, mistica, barocca e di una potenza espressiva difficile da eguagliare.
Massimo mi aveva comprato quella sfera perché aveva notato la mia emozione nel vedere il monumento la prima volta.
Ricordo che avevo provato stupore perché il viso della Santa sembrava rappresentare, oltre l’amore divino, la passionalità dell’amore profano, nonostante la cornice fortemente religiosa.
I fari di una macchina che percorre la via mi abbagliano e mi riportano al presente.
Ripenso a Massimo, è più giovane di me e, anche se il divario non era così visibile, era stato difficile superare tutti i pregiudizi e le critiche dovute alla differenza di età; un amore fuori dalle regole e dalle convenzioni. Ma avevo deciso che ne sarebbe valsa la pena, io e lui, insieme, ne valevamo la pena.
Però nessuno mi aveva mai fatta sentire come lui, trasformava la mia solitudine in bellezza. Così avevo deciso che preferivo essere felice e giudicata, piuttosto che sola ed elogiata.
Ora, però, circondata dal buio e dal freddo del mio giardino vestito d’inverno ricordo solo le parole di quella sera dentro la macchina, una musica stonata che non avrei voluto ascoltare.
«Celeste non fare quella faccia, lo sai anche tu che stiamo cercando di mantenere vivo qualcosa che è destinato a finire. Sai bene che non voglio farti soffrire ma è arrivato il momento di prendere coraggio e affrontare la realtà» aveva detto.
«È quale sarebbe questa realtà?»
«Celeste, lo sai benissimo! La nostra differenza di età è un problema e lo sarà sempre di più, perché mi obblighi a dirtelo quando ne sei consapevole anche tu.»
Ricordo che a un certo punto avevo smesso di ascoltarlo e che, quando era arrivato il “forse non ti amo”, il mio stomaco aveva già iniziato a contorcersi e un’ondata di nausea mi aveva travolto.
Le mie mani tremavano perché in quell’istante avevo capito cosa potesse aver causato il gonfiore del mio addome, la sensibilità dei miei seni e la spossatezza di quelle settimane, ed è stato come se quell’istante si fosse fermato dentro di me e avesse cancellato tutto il resto.
Qualche ora fa, proprio in questo punto, mi sono inginocchiata e con le mani ho iniziato a scavare per terra, la terra era dura e fredda, le mie mani erano arrossate e sporche, le unghie smaltate di rosso si erano macchiate di fango.
Quando il solco era abbastanza profondo ho depositato la sfera di vetro sulla terra fredda e l’ho coperta fino a farla scomparire del tutto.
Penso che si possa essere felici solo fino a un certo punto, mentre ho sempre pensato che il dolore non abbia fondo. Il dolore scava, come ho fatto io con la terra, raggiunge profondità che la felicità non conosce.
La sfera di vetro, e tutto ciò che rappresentava, è stata sepolta nell’istante in cui l’amore per lui si è staccato da me per confluire in qualcosa di più grande, qualcosa che nascerà da me, qualcosa che sarà doloroso ma meraviglioso.
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